5° Voghera Country Festival, 30 giugno 2012, Voghera (PV)

PREMESSA
Cinque anni. Un rodaggio durato anche troppo, se vogliamo. Ma giunti alla quinta edizione del Voghera Country Festival (già Independence Day Festival) i “ragazzacci” di Carlo Riccardi e di Country Music Network hanno acchiappato il jackpot e dato finalmente vita all’edizione migliore del quinquennio, richiamando sotto la volta del Palatexas un numero di country music fan non molto distante dal migliaio. Il merito va ascritto anche e soprattutto a Terri Clark, protagonista principale, che con il suo show di sabato 30 giugno ha entusiasmato e conquistato gli appassionati accorsi da diverse parti d’Europa (dalla Spagna alla Danimarca passando per Francia, Svizzera, Slovenia e Germania, attratti anche dalle gare di ballo country previste durante la tre giorni di festival) per gustarsi l’unica data italiana del tour europeo di questa talentuosa cantante americana, che oltre a Voghera è passata per Scozia, Regno Unito, Svizzera, Germania e Norvegia.
Venuta su con l’ondata di artisti che negli anni ’90 – Garth Brooks in testa – determinò la nascita del filone neotradizionalista della country music, a differenza di molti altri suoi colleghi arrivati a Music City in quel periodo a tentar fortuna e portati via dalla risacca di quella stessa onda, Terri Clark è riuscita non solo a trovare fama e fortuna ma, in 17 anni di attività discografica ad alti livelli, ad affermarsi come una delle “cowgirl hat” più apprezzate del circuito discografico. Dopo aver abbandonato il natìo Canada per il Tennessee a 19 anni e aver fatto gavetta per quasi dieci al Tootsie’s Orchid Lounge di Nashville a 15 dollari a sera più le mance, Terri ha acchiappato il successo nel 1995 con il suo primo omonimo album (ad oggi, con più di un milione di copie all’attivo solo negli Usa, quello più venduto della sua discografia) senza più mollare la presa, conquistando critica e pubblico nel percorso che l’ha portata dal country “ad uso classifica” richiesto dal mercato a quello più maturo e di qualità, non necessariamente legato alle vendite, cui un vero artista tende sempre.

IL CONCERTO
Certo, non avrà più la silhouette da pin-up di 17 anni fa ma questa caparbia maschiaccia canadese di 44 anni dai begli occhi verdi, che ormai ha superato i cinque milioni di dischi venduti, è sempre una bella donna. Si presenta sul palco del Cowboys’ Guest Ranch in perfetto orario – alle 22.30 – indossando sulle sue curve formose jeans, stivali e una t-shirt azzurra con disegni fantasia con un cappello da cowboy di paglia sui suoi lunghi capelli castani e portando con sé un entusiasmo davvero raro ed una fidata band che la sta seguendo ovunque ormai da un anno: Chris Cottros alle chitarre, Clay Krasner al basso, Jason Cheek alla batteria ma soprattutto la bionda Anita Cochran (voce e chitarre), altra grande cantante e autrice di talento con alle spalle parentesi country (molti di voi la ricorderanno in coppia con Steve Wariner in una hit del 1997, “What If I Said…”, che in quell’anno schizzò al primo posto della classifica di Billboard dei singoli più venduti).  Un valore aggiunto non da poco per lo show, anche se alla fine a mio parere non sarà sfruttato a dovere.
Il caldo estivo – come sempre dannatamente umido da queste parti – non ha dato tregua fin da metà settimana e gli oltre 30 gradi che hanno battuto per tutto il giorno del concerto hanno reso l’aria caldissima. Dentro il Palatexas l’afa si taglia con il coltello. L’ingresso di Terri sull’intro della poderosa “Wrecking Ball”, però, fa dimenticare subito ogni fastidio. Inizio davvero esplosivo. Per la prima volta sento attorno a me entusiasmo ed eccitazione davvero coinvolgenti. Terri saluta l’Italia e attacca subito con “I Just Wanna Be Mad” e poi dedica a tutte le ragazze “Girls Lie Too”. Mi accorgo – non mi era mai successo di vederne così tanta al Voghera Country Festival – che molta gente conosce anche le parole e canta insieme a lei (d’accordo, la piccola comunità di canadesi accanto a me non fa testo; ma per il resto, a parte la piccola rappresentativa delle basi militari americane, siamo tutti italiani). Il ritmo non accenna a diminuire visto che, senza soluzione di continuità, Terri passa a “Gypsy Boots” con una lunga introduzione di chitarre e batteria a scandire in battimani insieme al pubblico il ritmo. Noto con piacere che è tutto sommato a suo agio (anche grazie agli otto ventilatori sapientemente distribuiti sul palco!) ed entra quasi subito in sintonia con il Palatexas: sarà perché anche lei si è accorta che il pubblico la segue e il timore della barriera linguistica che l’aveva preoccupata un po’ alla vigilia e che mi aveva confessato in una intervista telefonica di un mesetto prima questa volta era in gran parte infondato. Memore di ciò, e sapendo quanto le piaccia interloquire con il pubblico durante i suoi show, sono curioso di vedere quanto spazio riserverà al parlato, anche perché ricordo diversi imbarazzanti silenzi nelle edizioni precedenti del festival che avevano menomato la magia della esibizione.
Il filo che Terri è riuscita a creare fin da subito con il parterre senza ancora praticamente parlare, però, stavolta ha davvero qualcosa di magico. Inizia a farlo proprio alla fine di “Gypsy Boots”, la country girl canadese, esordendo con un decisamente fuori luogo ma divertente «Buongiorno Italy!» al quale dal pubblico si leva in risposta il corretto “buonasera”. Ma ella pare non sentire e prosegue entusiasta tra le urla (urla vere, come ne ho sentite solo al concerto di Taylor Swift e in televisione da “Amici” di Maria de Filippi!): «Grazie mille per essere venuti. Sono contentissima di essere qui stasera! Sono stata in Italia solo un volta, prima di questa. A Venezia, in vacanza. Non sono mai stata qui per suonare e spero che voi vogliate che io ritorni molto presto». Saluta gli italiani, i soldati americani ed il gruppo di fan provenienti dal Canada: «Anche io sono nata in Canada. Vivo negli Stati Uniti, suono musica country per vivere e il mio lavoro è portarla nel resto del mondo e questa è un’emozione meravigliosa». Poi lusinga un po’ il pubblico: «Sapete, non ho mai visto così tanti cappelli da cowboy in un’unica platea!» e  – per la verità poco verosimilmente – aggiunge: «Neanche in Texas! Chi dice che bisogna andare fin là per vederne uno?» Ma a noi piace crederle e il pubblico apprezza tantissimo.
In fondo è una qualità dei grandi artisti, quella di saper conquistare la propria platea, e Terri dimostra di saperlo fare molto bene. Anche la scelta dei pezzi in scaletta (a mio avviso ineccepibile) è stata fondamentale e alla fine sarà sicuramente uno dei fattori determinanti del successo del suo show: quasi metà giustamente riservata alla promozione del suo ultimo “Roots & Wings”, fuori ormai da più di un anno ma che sta andando piuttosto bene (considerando che si tratta di un album indipendente autoprodotto, essendo Terri uscita dal massacrante giogo delle grandi major discografiche sin dalla fine del 2008) mentre per il resto ha pescato qua e là le migliori perle della sua quasi ventennale carriera. Intanto l’esibizione prosegue con due brani mid-tempo (che introduce entrambi) tratti proprio da “Roots & Wings”, con i quali abbassa sapientemente il ritmo dello show: “Breakin’ Up Thing” e la mia preferita, “The One”. Di quest’ultima Terri dice sorridendo: «Abbiamo girato il video di questa canzone sulle rive di un  lago, in Canada, dove sembrava di essere ai Caraibi perché non ho a disposizione il budget che ha Kenny Chesney [per andarci veramente, ai Caraibi]… quindi abbiamo dovuto accontentarci!»
La band è davvero strepitosa a non far pesare l’assenza della strumentazione più classicamente country (violini, steel guitar, mandolini e, in misura minore, tastiere) pur rendendo così dannatamente coinvolgente l’esecuzione di tutti i brani, inclusi i suoi più famosi che arrivano a seguire in un perfetto medley composto da “Emotional Girl”, “If I Were You”, “A Little Gasoline”, “Now That I Found You”, “When Boys Meet Girls” e “Dirty Girl”, al termine del quale Terri esclama: «Non posso credere a quanta gente sia venuta qui stasera!» Ed in effetti il colpo d’occhio del Palatexas è davvero corroborante. Dopo “No Fear”, scritta insieme a Mary Chapin Carpenter, con la quale ricorda di come da adolescente volesse essere come Reba McEntire immaginando la sua carriera da cantante country e di come questa canzone stia a significare che non bisogna mai avere paura di inseguire i propri sogni, guadagna per poco più di due minuti il backstage lasciando centro palco e riflettori ad Anita Cochran, che interpreta una parte della strofa iniziale di “What If I Said…” immediatamente seguita dal ritornello di chiusura. Davvero un peccato non poterla sentire tutta; un vero rammarico misto a delusione, dato che in altre circostanze Anita l’aveva eseguita nella sua interezza pur anche senza il contraltare della voce maschile. Il dubbio è che non sia in forma al 100%, anche se dal palco profonde energia ininterrotta e il suo background vocal sia sempre perfetto. Rientrata in scena e uscito a questo punto il resto della band, con il solo accompagnamento della sua chitarra acustica e seduta su uno sgabello, Terri introduce la bella ballata “Smile”, da lei scritta in ricordo della mamma Linda, scomparsa poco più di due anni fa per un cancro. Presentando la canzone si fa prendere di nuovo per un attimo dal timore della incomprensione linguistica: «Non so se mi capirete ma io lo dico lo stesso. Forse il vostro cuore sentirà quello che dico… Mia madre era molto coraggiosa e combatté questa malattia con tutto quello che aveva… Noi eravamo molto vicine, era stata lei a portarmi a Nashville quando compii 18 anni… Era la mia migliore amica, credeva davvero in me. Credeva che sarei stata in grado di portare la mia musica in giro per il mondo, un giorno. Se non fosse stato per lei questa sera non sarei qui, su questo palco in Italia, a suonare per voi… E’ stata meravigliosa. Voglio cantare questa canzone per tutti voi che avete un rapporto speciale con uno o con tutti e due i vostri genitori. Ricordo che io mi ero sforzata di essere forte durante tutto il corso della malattia ma quando mia mamma entrò nell’ultima settimana di vita un giorno mi sorprese a piangere. Allora si girò verso di me e mi disse le parole che hanno ispirato questa canzone». Un momento molto toccante, anche perché in conferenza stampa Terri ci aveva detto che l’emozione spesso la porta a cantare “Smile” a occhi chiusi per evitare di incrociare lo sguardo di fan che piangono e che fanno piangere anche lei impedendole di cantare.
Il momento acustico prosegue con un bel medley di classici della country music, che esaltano le qualità di entertainer della Clark. Le stesse qualità che dimostrò al suo esordio sul palco di quel famoso Tootsie’s Orchid Lounge di Nashville, che qui ricorda: «A quel tempo» dice introducendo questa parte dello show «andavano soprattutto gli honky-tonk. Ma io ho trascorso gran parte della mia adolescenza ad imparare a suonare canzoni di artisti come The Judds, Reba McEntire, Patsy Cline, Loretta Lynn…»  Nella continuazione dell’assolo con chitarra acustica in mano passa poi ad omaggiare queste icone con grande umiltà e con il rispetto che si deve a chi ha indicato il cammino alle generazioni successive. Nel medley successivo ci fa riassaggiare tra le altre perle storiche come “One’s On The Way” di Loretta Lynn (brano di inizi anni ’70), “I Was Country (When Country Wasn’t Cool)” di Barbara Mandrell (e siamo negli anni ’80) con un salto finale negli anni ’50 di “Walkin’ After Midnight” dell’immortale Patsy Cline.
Il rientro della band segna l’inizio della parte finale dello show, con “If You Want Fire” (Terri scatenata alla chitarra elettrica, la ragazza con le corde se la cava davvero bene!), “Better Things To Do”, “I Wanna Do It All” (con lancio di plettri al pubblico prima di raccogliere una bandiera tricolore lanciatale sul palco e con questa coprirsi come fosse un mantello) e “Northern Girl”, il manifesto della sua “canadesità”. A chiudere, un altro dei cavalli di battaglia di questa nordamericana tutto pepe, “Poor Poor Pitiful Me”. Il pubblico ebbro canta con lei, urla e risponde alle sue sollecitazioni. Se è vero che ella è piaciuta molto, sono altrettanto sicuro che a lei la tappa italiana lascia una bellissima sensazione, come di un nuovo amore sbocciato. O riconfermato, per chi già la conosceva. Ma il pubblico non è definitivamente sazio, vuole un bis. Che arriva puntuale con il rientro sul palco di tutti e cinque i componenti il gruppo per l’omaggio al grande Johnny Cash con l’esecuzione di “Folsom Prison Blues” durante la quale il basso di Clay Krasner e la batteria di Jason Cheek si ritagliano un minuto di virtuosistica parentesi personale, per poi giungere alla grande chiusa con “Here For A Good Time”, dove Terri scherzosamente mischia le note di “Here Comes The Sun” dei Beatles prima di urlare «I Love You Italy, grazie!» e abbandonare il palco sulle note di “Norther Girl” suonate dalla band. Novanta minuti densi di musica ed emozioni che i presenti a Voghera non dimenticheranno facilmente, sperando di rivedere presto in Italia questa interessantissima artista.
La sfida per il Voghera Country Festival 2013 ora è solo una: mantenere il livello raggiunto quest’anno.
Keep it country!
Massimo Annibale
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Un ringraziamento speciale a Simone Amaduzzi per le belle foto a corredo della recensione.
Visitate il suo sito http://www.simoneamaduzzi.com/